(Riprendiamo, dal libro “La gioia di Anna Maria”, il racconto fatto da Paolo degli ultimi tre giorni di vita di Anna Maria.)
Sabato 7 aprile (del 1990, ndr) dovetti andare solo, alla riunione di Équipe, perché Anna Maria era ancora a letto con l’influenza; nel salutarmi, mi domandò se mi ero preparato per la riunione (lettura e meditazione; di solito ci preparavamo insieme); dovetti dir di no, perché, ridottomi all’ultimo giorno (!), mi ero trovato poi a dover prestare un aiuto imprevisto a Costanza per il suo reparto scout. Anna Maria mi disse soltanto: «Mi vergogno di te». Per il suo senso del dovere, la mia negligenza era veramente motivo di vergogna. Ho recentemente ricordato quest’episodio in ambito END, e un’amica ha osservato: «Oggi non direbbe più quella frase». Io, al contrario, penso proprio di sì, perché anche quella frase severa fu dettata dall’amore; la correzione fraterna è sempre un atto d’amore. Qualcuno si sente forse di affermare che Gesù amava poco Pietro quando gli diceva: «Lungi da me, satana! Tu mi sei di scandalo» (Mt 16, 23)? E non sono parole tanto tenere, queste. Nei nove anni della mia vedovanza, quel rimprovero «Mi vergogno di te» ha dato frutti abbondanti: non sono mai più andato impreparato a una riunione; se non fosse stato un atto d’amore, avrebbe potuto aiutarmi a migliorare?
Il giorno seguente, Domenica delle Palme, Anna Maria iniziò a star male alle cinque del mattino. Non racconto i particolari perché non servono a nulla. Riferisco soltanto una sua frase: «Non ho mai sofferto tanto in vita mia». Sebbene pensassimo tutti che fosse soltanto un’influenza, alla sera chiamai la guardia medica; il dottore venne verso mezzanotte, sotto un diluvio; pensò che il peggioramento fosse dovuto a un’intolleranza dei farmaci che il nostro medico aveva prescritto e cambiò cura; sotto il perdurante diluvio vagai per la Brianza in cerca delle nuove medicine. Anna Maria peggiorava. Alle cinque del mattino di Lunedì Santo chiamai un’ambulanza e l’accompagnai all’ospedale. Mi sentivo sollevato: il mio tesoro era finalmente al sicuro, in buone mani. Tornai a casa e dormii tranquillo per alcune ore.
In tarda mattinata telefonai agli amici dell’Équipe per chiedere di pregare e invitare anche altri a pregare. A mezzogiorno andai all’ospedale; sembrava che Anna Maria stesse un po’ meglio; mi elencò una serie di cose che desiderava che le portassi, le solite cose che si dimenticano in questi casi: fazzoletti, occhiali, spazzolino… A casa stavo preparando la borsa quando una telefonata dell’ospedale mi chiamò d’urgenza: Anna Maria era stata trasferita nell’unità coronarica intensiva ed era gravissima. Corsi, insieme con Costanza; là trovammo il nostro consigliere spirituale d’Équipe, assorto in preghiera nell’anticamera. Restammo tutti e tre in silenzio per alcune ore. Al di là della parete Anna Maria stava morendo. Dopo le otto di sera mi fecero entrare, mi permisero di prenderle una mano tra le mie e di parlarle. Aveva tubi e cavi che uscivano da ogni parte del corpo e la collegavano a complicati macchinari. Aveva lo sguardo assente ma era tranquilla; in Paradiso mi dirà se udiva le mie parole, se vedeva il mio sorriso, se sentiva le mie carezze, ma ne dubito. Dopo tre quarti d’ora ebbe un sussulto e uno spasimo, che mi comunicò, acutissimo. Mi fecero uscire. Era morta. La sua agonia era durata quaranta ore: un numero simbolico per noi, ebrei e cristiani.
Subito dopo, Costanza fu ammessa a salutare sua madre e la vide, col viso ancora contratto per l’ultima sofferenza. Ringrazio il Signore ché poté poi vederla ancora, prima della sepoltura, quando ormai il viso si era disteso nell’abituale dolcezza, così che l’ultimo ricordo della sua mamma poté essere quello della serenità del suo riposo.
Tornammo a casa, e alla domanda delle altre figlie «Come sta?» dovemmo rispondere: «È morta». Quella risposta mi pesò come un macigno sul cuore. Ma che grande aiuto è la fede! Non ricordo se ci siano stati pianti in quell’ora di trapasso violento da un amore familiare pieno a uno monco della parte migliore; penso di sì, che abbiamo pianto insieme, abbracciandoci l’un l’altro; ma certo non ci fu mai disperazione, né allora né poi. Ed è una grazia grande.
Devo riferire la causa della morte di Anna Maria, per quanto ho capito della spiegazione datami dai medici. Il virus dell’influenza aveva attaccato la fascia muscolare esterna del cuore, il pericardio; il gonfiamento della parte per effetto dell’infiammazione non era potuto avvenire all’esterno, a causa della membrana anelastica che racchiude il cuore e aveva perciò stretto l’organo come in una morsa. Le parole usate dai medici per indicare quella morte furono infatti: tamponamento cardiaco a causa di pericardite acuta. «Una malattia per fortuna molto rara – mi disse in seguito un mio amico medico – ma terribile, perché priva di una sintomatologia sua propria, e perciò di difficilissima diagnosi». Lo stesso amico chiarì anche un altro particolare: la morte di Anna Maria non era stata favorita dalla sua stanchezza; debole o forte che fosse stata, consunta dal lavoro e dalle sofferenze morali o fresca e riposata, tutto ciò non poteva aver influito sulla sua morte. Mi è stato di sollievo, sentire questa precisazione, che non permette a nessuno di pensare che Anna Maria sia morta per il troppo lavoro o i troppi dispiaceri.